di Costantino Dilillo

Lo scorso anno mentre giravo con la Nikon fra i quartieri della città mi imbattei per caso in una delle manifestazioni di Amabili confini; incuriosito ascoltai per un po’ i brani di un racconto, e voci, libri, lingue. Per questo ho letto il programma, quest’anno, perché ricordavo quelle voci, le facce attente, le parole nelle strade decentrate che percorro ogni giorno; gli ho mandato uno dei miei racconti sulle periferie e così ho partecipato all’incontro con Eraldo Affinati nel quartiere di Villa Longo.

Organizzato bene: lo spazio, i tempi, il ritmo, le domande ficcanti di Antonella Ciervo, l’impegno di Saverio Ciccimarra, la grazia della lettura di Genoveffa Capuzzi, gli interventi di Maria Rosaria Salvatore, la regia meticolosa e il riserbo di Francesco Mongiello. La sala piena, attenta, silenziosa, puntuale, un sacco di gente di ogni età – incredibilmente – accorsa a parlare di libri, a smentire con il corpo la leggenda furbesca che il pubblico voglia solamente l’alienazione della monnezza tivvù, che la cultura sia patrimonio elitario di pochi eletti (?) al centro del mondo.

Non è vero: le periferie esistono solo nella mente di chi le crea, di chi discrimina, di chi disprezza, di chi, preda di ossessioni identitarie, assegna a sé il primo posto – io, bianco, ricco, mandato da dio – e ad altri il secondo, il terzo e l’ultimo: il margine, il bordo, l’inferno.

L’inferno.

La risalita dagli inferi ce l’hanno raccontata a Villa Longo due ragazzi sfuggiti agli orrori dell’Africa depredata dagli Europei, quelli a cui si è dato il nome di immigrati, il marchio dell’infamia, della diversità, della non-umanità, quelli che non hanno diritto neppure alla periferia, neppure al bordo estremo di un barcone sgonfio, quelli da non guardare, quelli che neppure si vuol vedere in giro, ritti alle soglie dei templi del dio-merce, con il cappello in mano. Quelli che con la sola presenza già disturbano la nostra quietitudine.

La felicità ce l’ha raccontata Alice Rondinone, una piccola scrittrice di 15 anni che guarda il mondo con la certezza che la felicità debba esserci per tutti, qui, in questa vita, nell’attesa di percorrerla tutta.

L’impegno quotidiano di avvicinarsi alle culture – perché più che LA cultura esistono LE culture – del mondo che dobbiamo incontrare e conoscere, ce lo ha raccontato Eraldo Affinati, scrittore, insegnante, costruttore di ponti.

La vita umana in ciascuno dei luoghi dove palpita, concepisce una sua cultura e ciascun mondo è un mondo fra i tanti mondi; i tempi della cultura dominante e di quella subalterna e di quelle che, relegate nell’infanzia, non hanno voce, devono finire, tramontare per sempre. La “tolleranza” verso chi ha fedi o culture diverse è paternalismo, è la superbia di chi presume una propria superiorità: la tolleranza è mistificazione. Infante, dal latino, è il muto, colui che non ha parola: quante sono le culture, i mondi cui non si dà parola?

Sembrano passati i tempi in cui i libri finiscono all’indice, al rogo, alla censura preventiva, in cui il pensiero non conforme è una minaccia e va colpito, fermato, arginato, irriso, spento. Ma non sono mai morti, quei tempi: il ricordarli ci serva a tenere a mente che leggere è rivoluzionario, leggere è conoscere, leggere è allargare il pensiero oltre i confini del proprio pianerottolo.
Amabili confini mi è parso un forte laboratorio di propagazione del pensiero.